Di seguito il testo del saggio del Prof. Preziosi dal titolo “DALLA PLURALITÀ DI AGENTI MODELLO AL PLURALISMO DEI MODELLI DI AGENTE: VERSO LA FRAMMENTAZIONE DEL REATO COLPOSO DI EVENTO” pubblicato sulla rivista Cassazione penale, n. 5/2011.
SOMMARIO: 1. L’agente modello fra “mito” e “realtà”. – 2. Dalla teoria alla prassi dell’agente modello: a) Evoluzione del sapere scientifico e tecnologico; b) Culpa in re illicita; c) Culpa in vigilando. – 3. Dolus in re licita?. – 4. Il disvalore oggettivo della condotta nel reato colposo di evento: quoziente di protezione della regola precauzionale e quoziente di rischio modale come indicatori del grado della colpa. – 5. Conclusioni.
1. L’agente modello fra “mito” e “realtà”
Costituisce un classico della letteratura penalistica in materia di reato colposo, il tema della dipendenza contenutistica del concetto di colpa dai singoli crimina culposa . La variabilità del contenuto del dovere di diligenza in relazione alle diverse fattispecie di reato, delinea il reato colposo in chiave di concetto formale, privo di una sua denotazione contenutistica. Ma al contempo, secondo autorevole dottrina ormai consolidata in Italia, tale carattere formale dell’illecito penale colposo non può oscurarne il suo divario strutturale rispetto al reato doloso, dato che il primo è indefettibilmente violazione della diligenza oggettiva : l’essenza della colpa in chiave normativa ne garantisce, così, un solido aggancio contenutistico. Il quale prende forma e si specifica, come è noto, in base al punto di vista ex ante dell’uomo coscienzioso e avveduto del circolo di rapporti cui appartiene l’agente, ossia in funzione di una pluralità di “figure modello”, tante “quanti sono i gruppi sociali e i circoli di rapporti” .
Fondata, pertanto, la colpa penale su di un sostrato normativo mediante il concetto di agente modello, inteso questo quale misura e contenuto della diligenza oggettiva richiesta dall’ordinamento, rimane il problema “decisivo” di “operare una descrizione” di tale modello.
La ricerca, come è stato ampiamente evidenziato, si dipana in varie direzioni. Ma, ai fini che interessano in questa sede, essa parte dal presupposto che l’homo eiusdem condicionis et professionis sia un parametro normativo, ossia che esprima il “punto di vista dell’ordinamento”. Ciò viene specificato ulteriormente nel senso che la tipicità colposa sussiste in quanto l’agente avrebbe dovuto riconoscere il fatto come potenzialmente dannoso sulla scorta delle conoscenze nomologiche che racchiudono l’insieme dei giudizi predittivi che l’ordinamento si attende siano conosciuti da parte di chi intraprenda una determinata attività (possibilità di riconoscere) e sul presupposto che lo stesso agente (modello) “si sarebbe comportato diversamente da come l’agente concreto ha agito”, astenendosi dal compiere l’azione o adottando cautele che il medesimo agente concreto non ha adottato. In una proposizione estremamente efficace: “il dovere di riconoscere è cioè la possibilità di riconoscere rapportata al punto di vista della figura modello” .
Quanto alla possibilità di tracciare una descrizione dell’agente modello, al di là di numerose classificazioni tipologiche – che, per la verità, sembrano assumere una mera valenza empirica più che contenutistica – essa emerge in controluce rispetto alla categoria del rischio consentito: “Il criterio del riferimento ai diversi ‘circoli di rapporti’ serve cioè a individuare nella più vasta area delle condotte pericolose, l’ambito più ristretto di quelle ‘contrarie alla diligenza’ e dunque eccedenti il rischio consentito” .
La correlazione fra “agente modello” e “rischio consentito” appare dunque essenziale per collocare correttamente la colpa nell’ambito della fattispecie oggettiva (Tatbestand) del reato colposo, avendo la funzione, il rischio consentito, di delimitare l’oggetto del divieto penale .
L’agente modello diviene, cioè, la cristallizzazione di un bilanciamento di interessi sociali , da cui scaturisce l’area del rischio consentito, ritagliata secondo un criterio nomologico che sembra derivare la sua fonte dal circolo di appartenenza dell’agente e, dunque, da come si sarebbe comportato un suo esponente nella situazione data.
Sul presupposto (spesso implicito) che la responsabilità colposa si innesti necessariamente in una attività lecita, cioè funzionale al perseguimento di un interesse sociale approvato dall’ordinamento, si mette egregiamente in evidenza che “proprio in quanto ‘personificazione dell’ordinamento’ nella situazione concreta, la “figura modello” dunque non è un criterio utile semplicemente per delimitare l’area del ‘dovere di riconoscere’ rispetto a quella più ampia del ‘potere di riconoscere’, ma essa funge, altresì, da parametro per stabilire quando la possibile previsione di fatti dannosi sia rilevante per la costruzione della regola di diligenza” .
L’agente modello rappresenta, così, uno snodo essenziale non solo e non tanto per stabilire quale sia la regola precauzionale che si sarebbe dovuta osservare nel caso concreto, ma in primo luogo perché con tale figura si delimita l’area del divieto penale mediante un bilanciamento di interessi fra ciò che, essendo socialmente utile, merita di essere perseguito anche a costo di un rischio per il bene tutelato dalla norma penale, da un lato, e la misura irrinunciabile di salvaguardia del bene stesso, dall’altro. Non tutto ciò che poteva essere riconosciuto da un soggetto dotato delle conoscenze nomologico-causali richieste nel circolo di appartenenza, si traduce in regola precauzionale volta a prevenire l’evento dannoso. Ad esempio, se un protocollo sanitario prescriva che solo in presenza di determinati dati clinici o di laboratorio devono essere eseguiti speciali test prima di somministrare una certa terapia, la reazione abnorme del paziente e la morte che ne derivi può rappresentare sì un evento astrattamente prevedibile secondo lo scibile medico e da un punto di vista ex ante, ma non attinge l’area di rilevanza penale perché si colloca sul versante del rischio consentito: sempre che, naturalmente, siano state scrupolosamente rispettate tutte le misure protocollari-precauzionali del caso.
In altri termini, l’astratta prevedibilità dell’evento (potere di riconoscere) da parte dell’agente modello, non è sufficiente a fondare un dovere di diligenza consistente nell’osservanza di precauzioni aggiuntive rispetto a quelle tenute in concreto (ovvero nel dovere di astenersi tout court dalla condotta pericolosa), tutte le volte in cui la realizzazione dell’evento costituisca un “rischio consentito”: in quanto, pur essendo riconoscibile dall’agente modello, questi non si sarebbe dovuto comportare diversamente da come ha agito in concreto.
L’agente modello, dunque, nella moderna teoria della colpa, non dovrebbe rappresentare soltanto l’uomo “coscienzioso e avveduto” nell’ambito del suo “circolo di appartenenza”. La sua essenza giuridica sembra trovarsi piuttosto sulla linea di demarcazione fra rischio consentito e oggetto del divieto penale. Con esso non si designa semplicemente il dovere di riconoscere in base al punto di vista ex ante dell’homo eiusdem condicionis et professionis; ma, in modo molto più penetrante e gravido di conseguenze, quale area di rischio l’agente ha il dovere di neutralizzare e quale, invece, rimane scoperta dall’intervento precauzionale dell’agente concreto, in quanto misura di rischio consentito.
La conseguenza di questo – e la cosa mi sembra di particolare interesse – è che, in realtà, l’agente modello ha primariamente una valenza tipizzatrice dell’illecito colposo . Non in quanto – come già detto – formula riassuntiva del compendio di doveri di diligenza facenti capo ad un determinato soggetto, ma perché svolge una funzione delimitatrice del penalmente rilevante .
Questa conclusione appare importante anche dal punto di vista della cosiddetta essenza della colpa. Le sue correnti definizioni come inosservanza di precauzioni doverose, inosservanza di norme sancite dagli usi o espressamente prescritte dalla autorità allo scopo di prevenire eventi dannosi, per quanto diffuse e generalmente accettate, per la verità non sembrano apportare un grande contributo alla chiarezza delle idee.
Ricordavo, in principio, il tema della dipendenza contenutistica del reato colposo dai singoli crimina culposa. Ed effettivamente, non si vede quale potrebbe essere il valore euristico di simili definizioni, soprattutto se con esse si voglia addirittura attingere l’essenza del reato colposo . Appare maggiormente proficuo, piuttosto, recuperare e approfondire il concetto di agente modello, nella direzione testé ricordata, per cercare il contenuto dell’illecito colposo nel bilanciamento di interessi e nel cangiante profilo del rischio consentito, visto in relazione dialettica con l’area dell’intervento punitivo. Ben potrebbe dirsi, in questa prospettiva, che l’essenza della colpa (penale) sta nella disapprovazione di una condotta realizzatrice di un evento lesivo, il quale rappresenta la concretizzazione di un rischio (o di una misura di rischio) non consentito dall’ordinamento nell’ambito di attività che contemplano rischi consentiti (in antitesi al reato doloso, la cui essenza sembra doversi ravvisare nella disapprovazione della condotta realizzatrice di un fatto lesivo, il quale rappresenta la concretizzazione della volontà dell’agente).
A rigore, si dovrebbe anche osservare che, in realtà, la stessa distinzione fra attività lecita e attività radicalmente illecita (versari in re illicita), appare ambigua in materia penale. Poiché un evento lesivo può derivare da un’attività lecita oppure illecita a seconda che esso rappresenti o no la concretizzazione della volontà dell’agente; detto altrimenti: a seconda che esso sia voluto o no dall’agente come conseguenza della sua azione od omissione.
Dal punto di vista giuridico-penale l’anzidetta distinzione, per quanto estremamente importante sotto il profilo sociologico e criminologico, può determinare un’inversione di prospettiva, posto che la stessa espressione concretizzazione di un rischio rimanda sempre ad attività genericamente lecite, proprio e solo in quanto l’evento, che del rischio è la concretizzazione, non sia voluto dall’agente come conseguenza della sua condotta. Se si trattasse di un evento voluto, infatti, non potrebbe più parlarsi di concretizzazione del rischio e, quindi, nemmeno di attività lecita. In chiave giuridico-penale, insomma, non è il tipo di attività a definire la sfera del lecito, ma il rapporto di imputazione tra il fatto realizzato e l’agente.
Orbene, ciò significa, a mio avviso, che l’essenza della colpa sta sì nel carattere antinormativo della condotta (inosservanza della regola precauzionale) ma in quanto tale carattere discende dalla realizzazione di un evento che rappresenta la concretizzazione di un rischio non consentito.
Il concetto di “agente modello” viene dunque ad indicare l’area del rischio consentito in funzione degli eventi prevedibili ed evitabili mediante l’osservanza della regola precauzionale, nonché di quelli astrattamente prevedibili ma rispetto ai quali non è richiesta l’osservanza di una regola precauzionale o rispetto ai quali non è imposto un dovere di astensione dalla condotta pericolosa. La colpa, nella sua dimensione oggettiva, non è la mera inosservanza della regola precauzionale e neanche quest’ultima accompagnata dall’evitabilità dell’evento mediante l’osservanza della stessa regola. Essa è piuttosto la realizzazione di un evento il cui rischio non è tollerato dall’ordinamento.
Non basta, in altri termini, perché vi sia colpa, affermare che la regola di diligenza è stata violata e neanche che la sua osservanza avrebbe potuto impedire l’evento dannoso. E’ necessario porre l’accento sul momento dell’antidoverosità della condotta, la quale è niente altro che la risultante del rischio disapprovato dall’ordinamento. L’antidoverosità, nel reato colposo, esprime una qualificazione del fatto (non della volontà, come nel reato doloso) avente ad oggetto l’evento in quanto concretizzazione di un rischio non consentito. All’agente si rimprovera di aver cagionato un evento che è conseguenza di un rischio disapprovato. L’antidoverosità non è pertanto da riferirsi alla violazione della regola cautelare – che in astratto potrebbe anche sussistere ma che di per sé, come abbiamo visto, non è sufficiente a fondare l’illecito colposo – ma piuttosto all’evento che sia espressione di un rischio non consentito.
Se così stanno le cose, in primis, la colpa nel suo profilo oggettivo non è soltanto inosservanza e nemmeno inosservanza di precauzioni doverose, se con questa aggettivazione si lascia in ombra il momento effettuale; il quale, al contrario, si collega con il carattere antidoveroso dell’inosservanza al punto di determinarne il contenuto: l’antidoverosità della colpa si costituisce in relazione alla tipologia di rischio di cui l’evento verificatosi rappresenta la concretizzazione.
Si può allora cogliere pienamente la valenza tipizzatrice del concetto di agente modello, di cui già si è fatto cenno. Ma non unicamente come parametro della prevedibilità dell’evento , ma in quanto fonte di qualificazione dell’antidoverosità penale, che nella teoria del rato colposo di evento appare indissolubilmente legata al momento effettuale del superamento del rischio consentito.
E’ vero, pertanto, che il reato colposo esprime un concetto formale, privo di una sua denotazione contenutistica, ma solo nel senso che esso necessita di una eterointegrazione mediante la categoria dell’agente modello. Da ciò non deriva, tuttavia, che il reato colposo si connoti unicamente per la disattenzione e trascuratezza, di guisa che la sua essenza sia sempre e solamente da ravvisare nel rimprovero per l’inosservanza della regola precauzionale: tanto da doversi affermare che non esisterebbero crimina culposa ma soltanto un crimen culpae e che, conseguentemente, la colpa non sarebbe una relazione fra agente ed evento.
Invero, proprio la corretta messa a fuoco del concetto di “agente modello” dimostra che il reato colposo di evento esprime una precisa relazione fra agente ed evento, nei termini sopra visti del profilo effettuale collegato al rischio non approvato dall’ordinamento. Ciò sul presupposto che anche nella colpa sussiste un rischio non approvato dall’ordinamento (che non significa rischio illecito). E che anche nelle ipotesi in cui l’ordinamento vieti in radice una determinata attività per la sua intrinseca pericolosità (o, forse, più correttamente: in quanto giudicata eccessivamente rischiosa), siamo pur sempre in presenza di condotte soltanto colpose, fintantoché l’evento lesivo non sia voluto dall’agente come conseguenza della sua condotta.
Infine, nel reato colposo di evento l’agente modello, quale formula ellittica che racchiude l’intero prisma del rischio consentito, fornisce il criterio fondamentale di tipicità dell’illecito, non solo quanto ad individuazione della regola precauzionale, ma anche in funzione della selezione degli eventi rilevanti e del nesso condotta-evento.
Da tutto ciò dovrebbero derivare alcuni importanti corollari.
Primo. L’agente modello si è a lungo identificato (più o meno esplicitamente) con un parametro razionale e normativo a priori, quale standard di diligenza richiesto ad un uomo ragionevolmente prudente in funzione della protezione di beni giuridici. Un simile parametro, nella sua assolutezza, semplicemente non esiste e appartiene più al mito che alla realtà. La forza deontica dell’agente modello deriva sempre da un bilanciamento di interessi, non ne ha in proprio: è, per così dire, di secondo grado. L’agente modello si costruisce sul rischio consentito e, per questa ragione, non può esprimere una misura unitaria. La regola precauzionale doverosa prima di essere espressione dell’agente modello è espressione di un modello di agente, in misura maggiore o minore orientato alla prevenzione del rischio e alla tutela dei beni giuridici, in funzione inversamente proporzionale all’utilità sociale dell’attività svolta.
L’essenza e per essa l’unità del reato colposo non può risiedere, pertanto, nella violazione della regola precauzionale, poiché il concetto stesso di precauzione doverosa non è fonte di una regola di azione ma ne è espressione: la norma di condotta discende da un bilanciamento di interessi – questo, sì, vera regola – contrapposti fra loro; bilanciamento il quale non può che essere “costantemente” variabile: non è la cifra, cioè, di una misura unitaria di relazione fra regola di condotta e bene giuridico.
In ciò si evidenzia la differenza nomodinamica fra reato colposo e reato doloso: quest’ultimo è caratterizzato da una tutela omogenea del bene giuridico, mentre la fattispecie che prevede il reato colposo fornisce sempre una tutela disomogenea del bene stesso. Proprio in quanto la regola di protezione, nel reato doloso, è sempre invariabile: al contrario, nel reato colposo, è sempre variabile. Nel primo è norma di divieto di realizzazione volontaria del fatto. Nel secondo è criterio di regolazione (o etero regolazione) funzionale della tutela di beni giuridici. Norma di divieto, dunque, da un lato, e regola funzionale di tutela, dall’altro. In questo senso, perciò, è condivisibile la qualificazione dei reati colposi come offene Tatbestände o ergänzungsbedürftige Tatbestände , ma in una accezione molto pregnante che non sta a significare soltanto la necessaria integrazione della fattispecie criminosa con la regola precauzionale, bensì che la stessa funzione di tutela della norma incriminatrice viene integrata dal modello di agente operante in relazione ad una specifica area di rischio consentito.
Secondo. La distinzione fra colpa generica, fondata su norme di esperienza, e colpa specifica, fondata su norme scritte che disciplinerebbero aree di rischio sostanzialmente omogenee , deve essere ridimensionata. Basti al riguardo una semplice constatazione.
In materia di norme precauzionali (specifiche) per la prevenzione dei rischi da esposizione ad amianto – ed è soltanto un esempio – troviamo disposizioni che pure prevedono “specifiche” precauzioni (la cui inottemperanza, peraltro, è sanzionata penalmente già come reato contravvenzionale di mera condotta), ma che di fatto risultano necessitare di integrazione mediante usi, norme di esperienza e prassi. Così è per l’art. 256, d.lgs. 81/2008, che impone al datore di lavoro di predisporre un piano dei lavori di demolizione o rimozione dell’amianto in cui si indichino le misure necessarie per garantire la salute e la sicurezza dei lavoratori sul luogo di lavoro e la protezione dell’ambiente esterno (comma 3) e si prevedano informazioni, tra l’altro, sulla fornitura di idonei dispositivi di protezione individuale (comma 4, lett. b), su adeguate misure per la protezione e la decontaminazione del personale incaricato e dei terzi e per la raccolta e lo smaltimento dei materiali (comma 4, lett. e), f). Come è evidente, in un caso del genere, pur sussistendo la norma scritta manca una precisa regola di condotta, salvo l’obbligo di predisporre il “piano dei lavori”, il quale, però, non può certo essere considerato regola precauzionale. La “misura” precauzionale si fa regola per il tramite del contenuto specifico che detto piano deve assumere, in funzione della sua valenza preventiva rispetto ai rischi derivanti da esposizione ad amianto. Ma tale contenuto non è affatto fissato nella regola scritta, bensì è “determinato” in ragione degli usi e delle conoscenze tecniche e scientifiche in materia. Ed è evidente che, nonostante la norma scritta, non si possa qui parlare né di disciplina né di area di rischio omogenee, posto che la variabilità del contenuto postula anche disomogeneità dei rischi e delle misure preventive volte a neutralizzarli o ridurli.
Terzo. La funzione tipizzatrice dell’agente modello abbraccia l’evento del reato colposo, il quale, come già si è detto, rappresenta la concretizzazione di un rischio disapprovato dall’ordinamento. Questo implica che l’obbligo di osservanza della regola precauzionale è strettamente connesso e tipizzato in funzione di un determinato evento: l’antidoverosità penale non è legata ad un indifferenziato evento lesivo, bensì ad uno specifico rischio di cui l’evento ne costituisce la concretizzazione. E se il concetto di agente modello si staglia contenutisticamente sul rischio consentito, l’antidoverosità della condotta è necessariamente legata alla realizzazione di quel determinato evento in conseguenza della violazione di una regola precauzionale. Propriamente, dunque, non è dall’ambito di protezione della regola precauzionale che si ricavi direttamente l’evento rilevante/tipico del reato colposo, ma dal fatto che l’evento rappresenti tipicamente la concretizzazione di un rischio disapprovato.
Ne segue, ulteriormente, che, in tale prospettiva, rischio disapprovato ed evento concretizzato sono in rapporto di tipicità: l’evento realizzatosi deve essere quello la cui (possibile) verificazione rappresenta un rischio non consentito dall’ordinamento. Ciò vuol dire che i termini di una simile relazione devono essere noti ex ante, altrimenti non avrebbe ragion d’essere parlare di rischio consentito, di agente modello, e più in generale di tipicità del reato colposo di evento. Non vi può essere approvazione o disapprovazione di un rischio senza sapere previamente quali siano gli eventi la cui possibile realizzazione non è tollerata. Salva l’ipotesi in cui tutti i possibili eventi dannosi derivanti da una determinata attività siano disapprovati, vuoi perché vi sia un difetto di conoscenza nomologico-causale, vuoi perché si ritenga che l’utilità sociale dipendente dall’attività stessa sia troppo modesta rispetto ai rischi che produce: in tal caso, però, ai fini dell’integrazione della fattispecie colposa, dovrà pure esistere una regola precauzionale che vieti in radice l’attività in questione (che per ciò solo, però, come già avvertito, non si converte in attività illecita). Si ripete: anche qui ci troveremo sempre nell’ambito della responsabilità colposa, fin quando la realizzazione dell’evento non sia voluta dall’agente. Così, ad esempio, se uno sport risultasse eccessivamente pericoloso e ne venisse pertanto vietata la pratica in via autoritativa, colui che lo organizzasse o, comunque, ne consentisse l’esercizio, potrebbe certamente rispondere ma solo a titolo di colpa per l’evento lesivo che si dovesse verificare in conseguenza di esso.
Quarto. Se la regola precauzionale espressione dell’agente modello non può che discendere da un bilanciamento di interessi, che si risolve nel tracciare la linea di confine fra rischio consentito e rischio non consentito, si dovrebbe coerentemente ammettere che “ove il pericolo di lesione non è ritenuto bilanciato da alcun vantaggio di tipo sociale (o il beneficio vale meno del rischio), la condotta non può che essere vietata e, dunque, qualificata come illecita. Si passa, così, dalla libertà al divieto; ossia dalle regole dell’agire alla loro negazione” . Se ne deduce che nel quadro di una condotta illecita a far difetto non è la possibile “precauzione”, che pure potrebbe immaginarsi, ma la “predeterminabilità giuridica e la doverosità della sua adozione”, in quanto “In materia di colpa, ‘dovere di diligenza’e ‘regola’ sono concetti giuridici con effetti giuridici vincolanti che (necessariamente) vivono nei limiti di ciò che è consentito dall’ordinamento” .
Del resto, stando alla ricostruzione che ho sommariamente fornito e che ritengo teoricamente più soddisfacente – e salve le considerazioni critiche che formulerò nel prossimo paragrafo – l’evento nel reato colposo rappresenta la concretizzazione tipica del rischio disapprovato dall’ordinamento. Ergo, un rischio da attività illecita non può definirsi tipico del reato colposo. E questo soprattutto perché – mi sembra – la distinzione fra attività lecita e attività illecita, nell’ottica della norma penale, come già si è rilevato, è ricavabile solo dal rapporto di imputazione: se il fatto lesivo (cioè tipico ai sensi di una norma penale incriminatrice) è voluto, risulta difficilmente declinabile il paradigma del reato colposo. L’agente modello è la risultante di un bilanciamento di interessi fra benefici sociali pertinenti ad una data attività, da un lato, e possibili conseguenze dannose dipendenti dalla stessa, dall’altro: di quale bilanciamento si potrà parlare in relazione a conseguenze che siano volute dall’agente? Del bilanciamento in questione, a ben vedere, ne è caratteristica proprio la sua aleatorietà, la componente di rischio insita in esso. Un risultato voluto come conseguenza della condotta si colloca invece su di un versante estraneo al paradigma del rischio. Le conseguenze volute di una condotta non sono in alcun modo definibili come rischi e, d’altronde, il bilanciamento in parola, peculiare al reato colposo, è possibile soltanto rispetto a conseguenze aleatorie: annoverabili, appunto, fra i rischi di una determinata attività; altrimenti sarebbe del tutto illegittimo qualsiasi bilanciamento. Così ci si dovrebbe chiedere, specularmente: quale potrebbe essere il beneficio sociale ricavabile da un’attività in cui siano voluti dall’agente fatti lesivi come conseguenza della sua condotta? La risposta non potrebbe che suonare: nessuno.
Quinto. Il disvalore del reato colposo di evento è collegato al suo contenuto tipico. Precisamente, se il suo (innegabile) disvalore di evento viene correttamente situato nell’ambito di un illecito di modalità di lesione, ne segue, innanzitutto, che la natura dell’evento deve essere già impressa nel rischio creato con la condotta posta in essere dall’agente. Il rischio creato, cioè, deve riguardare eventi che siano noti ex ante, ossia possibili conseguenze della condotta antidoverosa secondo la miglior scienza ed esperienza al momento del fatto. E ciò non solo perché altrimenti non vi sarebbe una ragione affinché il relativo rischio di verificazione venisse approvato o disapprovato dall’ordinamento (eccezion fatta per le ipotesi, come si è detto, in cui il rischio venga totalmente disapprovato e sia vietata tout court l’attività pericolosa): ma in quanto il rischio in questione è inerente ad una modalità di azione. E non mi sembra si possa immaginare una fattispecie modale di evento senza la previa puntuale individuazione della natura dell’evento stesso. Per maggior chiarezza: per natura dell’evento non intendo qui l’evento riconducibile all’ambito di protezione della regola cautelare, e nemmeno l’evento, nel senso sopra indicato, di concretizzazione tipica del rischio disapprovato: mi riferisco proprio all’evento tipico del reato secondo il suo nomen iuris.
Questo mette in evidenza una sorta di duplice tipicità del reato colposo: una costruita sulla figura dell’agente modello e del rischio consentito nei termini già indicati e ricavabile necessariamente attraverso un processo di eterointegrazione della norma incriminatrice; l’altra da quest’ultima direttamente desumibile, secondo lo schema usuale della sussunzione nella fattispecie astratta di reato.
2. Dalla teoria alla prassi dell’agente modello
E’ doveroso ammettere che quanto in sintesi illustrato nel precedente paragrafo, appare abbastanza distante dai percorsi giurisprudenziali, come di qui a poco si vedrà, seppur brevemente, nei limiti consentiti dall’economia del presente lavoro.
Ma ancor più significativo è che, a mio avviso, l’impianto teorico della colpa, anche nelle sue conclusioni ora proposte (o riproposte), che sembrano peraltro maggiormente convincenti, risulta eccessivamente dogmatico, sul presupposto che, qualunque definizione o impostazione si prediliga, esso viene presentato come un impianto unitario .
Senza la minima pretesa di esaustività, mi limito a ricordare e a svolgere qualche breve riflessione, su alcuni “fronti caldi” della responsabilità colposa, che segnalano una progressiva frammentazione o, se si preferisce, una sorta di partenogenesi in seno al reato colposo di evento.
Vediamo quali sono: la colpa in relazione a “materie” connotate da una forte evoluzione del sapere scientifico; la culpa in re illicita; la culpa in vigilando; la responsabilità colposa nel campo della circolazione stradale con riferimento a problematiche di confine con il dolo eventuale.
Non è possibile in questa sede affrontare nemmeno per sommi capi tali argomenti. Sia consentito offrire solo degli spunti di riflessione. Qualche ragionamento più argomentato mi permetterò di svolgerlo con riferimento all’ultima questione, nel successivo paragrafo.
a) Evoluzione del sapere scientifico
Come è stato autorevolmente osservato, “la tipicità del delitto colposo verrebbe scardinata dall’imputazione di eventi non prevedibili alla luce del sapere scientifico esistente al tempo della condotta. L’imputazione per colpa non può poggiare sull’inosservanza di regole cautelari generiche che successivi sviluppi del sapere scientifico abbiano rivelato obiettivamente inidonee, già in astratto, a fronteggiare il rischio specifico da esposizione ad amianto” .
La questione affrontata dalla giurisprudenza riguarda, fra l’altro, la configurabilità di regole cautelari ad ampio spettro, che presentano cioè “una sfera preventiva particolarmente ampia e generica” . Rispetto alle quali, pertanto, secondo la giurisprudenza si dovrebbero considerare come prevedibili anche quelle conseguenze non ancora conosciute al momento della condotta, sul presupposto che il carattere dannoso di una determinata attività (l’esposizione ad amianto, nel caso), già noto ex ante, renderebbe possibile o, addirittura, probabile, che via via nel tempo si scoprano ulteriori rischi, come l’insorgenza di diverse e più gravi malattie in conseguenza dell’attività stessa . Il carattere genericamente dannoso della condotta già conosciuto al tempo della sua realizzazione; la presenza di regole cautelari ad ampio spettro; la asserita prevedibilità di eventi diversi proprio in carenza di conoscenze scientifiche certe e complete, renderebbero ascrivibile l’evento a titolo di colpa seppure in relazione ad una dubbia portata precauzionale della regola violata rispetto all’evento concretamente verificatosi.
A questo riguardo, i punti maggiormente critici di tale conclusione sembrano rappresentati dalla debole valenza tipizzatrice della regola precauzionale e dalla genericità del criterio della prevedibilità. Paradossalmente, secondo la posizione della giurisprudenza qui richiamata, il disvalore del reato colposo di evento diviene (implicitamente) tutto soggettivo:“ma che agente modello è quello che sottopone altri all’esposizione ad una sostanza già riconosciuta (dalla legge!) come nociva anche se le conseguenze dell’esposizione non siano ancora completamente note?” .
In un quadro del genere non ha più senso parlare di tipicità del reato colposo e nemmeno di agente modello, posto che inequivocabilmente l’unico elemento fondante l’addebito per colpa è la violazione della regola precauzionale. Riterrei che una rivisitazione del concetto di agente modello ed una valorizzazione del rischio consentito in chiave di criterio cardine della fattispecie colposa, potrebbero mettere meglio in luce la debolezza di talune conclusioni giurisprudenziali.
Peraltro, sono dell’avviso che in una prospettiva maggiormente realistica, che non guardi soltanto alla coerenza teorica degli argomenti ma anche alla tenuta pratica degli istituti giuridici, le posizioni assunte dalla giurisprudenza in riferimento alle problematiche sollevate dall’accertamento della colpa nell’evoluzione del sapere scientifico, rivelino una progressiva e forse inarrestabile frammentazione della colpa penale, rispetto alla quale sembra difficoltoso continuare a reperire schemi teorici di riferimento assolutamente univoci e coerenti con le premesse politico criminali del sistema.
b) Culpa in re illicita
Il tema ha conosciuto recentemente un forte stimolo dato dalla pronuncia delle Sezioni Unite in materia di morte o lesioni come conseguenza di altro delitto . Stimolo verso una direzione che definirei opposta rispetto a quella appena richiamata relativa all’evoluzione del sapere scientifico. Il Supremo Collegio ha affermato che la morte dell’assuntore di sostanza stupefacente è ascrivibile al cedente ai sensi dell’art. 586 c.p. solo ove sussista la colpa in concreto per violazione di una regola precauzionale diversa dalla norma che incrimina la cessione dello stupefacente e sempre che l’evento fosse prevedibile ed evitabile alla stregua dell’agente modello razionale, tenuto conto delle circostanze del caso concreto conosciute o conoscibili dall’agente reale.
Ho già svolto alcune considerazioni a carattere generale sul tema nel paragrafo precedente. A prescindere dalla condivisibilità o meno dell’impianto motivazionale nel suo complesso – che appare senz’altro animato dal più che condivisibile intento di ridurre i residui spazi della responsabilità oggettiva nel nostro ordinamento – mi sembra fondata l’obiezione a tenore della quale il riferimento alla prevedibilità secondo ragionevolezza o all’agente modello razionale, sembra “suggerire per l’accertamento molto di più il controllo sulla prevedibilità e l’evitabilità (nel contesto del concreto controllo finalistico della condotta) che la violazione di cautele doverose essenziali al rimprovero per colpa ed il modello dell’homo eiusdem professionis et condicionis; il rinvio (inusuale) alla ragionevolezza dell’autore modello, che con la tipicità oggettiva colposa non ha granché da spartire, conferma questa sensazione” .
Anche in questo caso, probabilmente, ci troviamo in presenza di una categoria spuria di colpa, non del tutto assimilabile al reato colposo in senso stretto. Non perché - come già rilevato – rispetto ad attività illecite non siano enucleabili precauzioni materiali , ma in quanto tali cautele non assurgono al rango di regole giuridiche essendo esse sfornite del carattere della giuridicità e della obbligatorietà e, soprattutto, difettando di qualsiasi funzione tipizzante in quanto non ritagliate sulla base di un rischio consentito.
c) Culpa in vigilando
Solo alcune brevissime notazioni rispetto a un tema che meriterebbe ben altro approfondimento. L’art. 16, coma 3, D. lgs. n. 81/2008, come modificato dal c.d. correttivo (art. 12, D. lgs. n. 106/2009), prevede che la delega di funzioni del datore di lavoro non esclude l’obbligo di vigilanza in ordine al corretto espletamento da parte del delegato delle funzioni trasferite, ma tale obbligo si intende assolto in caso di adozione ed efficace attuazione del modello di verifica e controllo di cui all’art. 30, comma 4, dello stesso decreto, che concerne i modelli di organizzazione e gestione, in materia di sicurezza sul lavoro, idonei ad avere efficacia esimente della responsabilità amministrativa degli enti ai sensi del D.lgs. n. 231/2001.
Ebbene, questo meccanismo evidenzia un sostanziale mutamento di prospettiva della responsabilità colposa. La c.d. colpa di organizzazione diviene il presupposto di imputazione della responsabilità colposa della persona fisica. Non è la prima ad essere un riflesso sbiadito della seconda, come forse qualcuno aveva pensato. Ma è, al contrario, la seconda ad alimentarsi contenutisticamente dalla prima. La colpa, pertanto, sembra in questo caso essere fondata non sulla violazione di una regola di condotta, ma sulla violazione di un complesso di regole (modello) organizzative .
E la differenza fra regole di condotta e regole organizzative non è soltanto nominalistica. Già autorevole dottrina aveva sottolineato come nell’ambito della culpa in vigilando, soprattutto in materia di sicurezza sul lavoro, vengono in considerazione regole cautelari di natura procedimentale .
Si deve mettere in luce, a mio avviso, che la comparsa della regola organizzativa nel paradigma del reato colposo, evidenzia innanzitutto l’emersione di una pluralità di sistemi di gestione e cogestione dei rischi derivanti da attività complesse . Si è acutamente rilevata, altresì, “una asimmetria tra coesistenti paradigmi logici ed epistemologici, che trova, peraltro, ampie ripercussioni sul sistema giuridico, dove sono apprezzabili ampi spazi di compresenza di modelli normativi di regolazione diversi e ispirati a quei differenti paradigmi” .
Nel complesso, la regola organizzativa opera uno slittamento del criterio di qualificazione giuridica sul versante della regola tecnica in luogo di quella deontica e, dunque, comporta un possibile snaturamento della normatività della colpa penale, dando ingresso a moduli argomentativi fondati sul ragionamento anancastico e sulla verifica di efficacia delle regole adottate piuttosto che sulla verifica di ottemperanza alle regole imposte.
3. Dolus in re licita?
In ordine al confine fra dolo eventuale e colpa cosciente nei reati da circolazione stradale, a me sembra che il punto cruciale sia stabilire che cosa significhi accettazione del rischio. La distinzione tra dolo eventuale e colpa cosciente, lo ricordo sommariamente, è che nel dolo eventuale c’è l’accettazione del rischio di realizzazione dell’evento, mentre nella colpa - più esattamente con previsione - c’è la previsione dell’evento, ma con la certezza, la sicura convinzione da parte dell’agente, che esso non si realizzerà .
Il punto è proprio questo: l’accettazione del rischio rappresenta una formula vuota che può essere gestita in sede giurisprudenziale secondo accezioni diverse, oppure può assumere una connotazione univoca?
La giurisprudenza di merito ha ritenuto talvolta possibile che illeciti quali gli omicidi colposi per violazione delle norme sulla circolazione stradale vengano qualificati – si scusi la contraddizione in termini, che però in questo caso è voluta per evidenziare la problematica di fondo, come vedremo di qui a poco – come illeciti dolosi e precisamente con dolo eventuale; ha affermato, appunto, in alcuni casi importanti, un aspetto che a me sembra molto significativo.
Il ragionamento sostenuto in alcune pronunce è essenzialmente il seguente. Si può parlare di dolo eventuale quando l’agente pone in essere una condotta che ha come conseguenza la possibilità che si realizzi un evento assolutamente inevitabile. Cioè a dire: in conseguenza della condotta, la possibilità di realizzazione di un dato evento non è scongiurabile neanche con una contromanovra di emergenza.
Quando, cioè, per dirla in termini molto pratici e concreti, l’automobilista attraversi un incrocio con il rosso, o senza fermarsi allo stop, a una velocità tale e in condizioni che nessuna manovra di emergenza sia possibile per evitare la collisione con un veicolo che si trovasse ad attraversare lo stesso incrocio in quel medesimo istante, potremmo parlare di dolo eventuale piuttosto che di colpa cosciente ove si verifichi l’evento.
Se si riflette sulle ragioni della predetta impossibilità di effettuare la contromanovra di emergenza, ad esempio perché l’incrocio è cieco, non c’è visibilità, e quindi l’intervallo fra il momento in cui può essere visto il veicolo che viene nella direzione di marcia opposta e il momento dell’arresto non può comunque essere sufficiente ad evitare la collisione, evidentemente siamo di fronte a un evento che risulta assolutamente imponderabile: una volta realizzata la condotta antidoverosa, cioè in violazione della regola precauzionale, quell’evento appare non scongiurabile neanche con una contromanovra di emergenza. Da questa constatazione la giurisprudenza, in alcuni casi, appunto, ne ha fatto discendere la possibilità di qualificare tale condotta come dolosa, seppure nella forma del dolo eventuale.
La conclusione, a mio avviso, seppure con le precisazioni che seguono, è in linea di principio condivisibile: laddove non vi sia margine per una contromanovra di emergenza, v’è evidentemente accettazione del rischio di realizzazione dell’evento, perché dire che manca accettazione del rischio significa dire che l’agente deve necessariamente ipotizzare di lasciarsi un margine di manovra per poter evitare l’evento, ancorché poi in concreto questo margine di manovra, questa possibilità, si riveli non realistica .
Così, per esemplificare ulteriormente, colui che affronta una curva a velocità eccessiva e cioè a una velocità tale per cui con le sue capacità di guida non possa governare il veicolo, ma rappresentandosi (erroneamente), con convinzione certa, che sarà in grado di controllarlo, ancorché poi in concreto non vi riesca e quindi si verifichi l’evento dannoso, non potrà dirsi aver agito con dolo, nemmeno eventuale. Ciò perché in un simile caso, pur essendovi la previsione dell’evento, essa è neutralizzata dalla certezza che l’evento stesso sarà evitato con la capacità di guida, con la contromanovra di emergenza, o per effetto di altre condizioni che l’agente si è rappresentato come realmente esistenti al momento del fatto.
Ma, al contrario, nell’ipotesi in cui il guidatore ponga in essere consapevolmente una condotta di guida tale che non vi sia più la possibilità di scongiurare l’evento dannoso, e quindi affidi all’imponderabile la realizzazione o non dell’evento stesso, effettivamente potrebbe ravvisarsi l’accettazione del rischio e, conseguentemente, il dolo eventuale.
A quali condizioni, tuttavia?
L’accettazione del rischio, in questa prospettiva, dovrebbe essere fondata, però, dall’aver percepito ed essersi conseguentemente rappresentata l’impossibilità di effettuare nella situazione concreta una contromanovra di emergenza idonea ad evitare l’evento dannoso. L’accettazione del rischio è costituita, cioè, dalla situazione di imponderabilità assoluta che si verifichi in conseguenza di una condotta antidoverosa, i cui risultati non siano controllabili dall’agente .
Seguendo tale linea ricostruttiva abbiamo il vantaggio di delineare mediante criteri relativamente certi, a mio avviso, la distinzione fra dolo eventuale e colpa con previsione nella casistica degli infortuni stradali (ma non necessariamente solo di essi), perché il giudice dovrà così accertare, innanzitutto, se l’agente si sia effettivamente rappresentato le condizioni perché in astratto potesse effettuare una contromanovra di emergenza o, comunque, controllare il decorso causale della propria condotta. Una volta accertato che quelle condizioni non solo mancassero oggettivamente, ma non abbiano formato oggetto di rappresentazione da parte dell’agente, il giudice potrà qualificare il fatto come doloso solo se l’agente abbia percepito e si sia effettivamente rappresentato l’impossibilità di evitare l’evento mediante la contromanovra di emergenza.
Dunque, ed ecco il punto che mi sembra di particolare rilievo, l’impossibilità di evitare l’evento – mediante la contromanovra di emergenza – ancorché in conseguenza di una condotta antidoverosa, non può essere sufficiente a fondare il dolo. Altrimenti ragionando, infatti, questa forma di responsabilità si tramuterebbe in una finzione nominalistica, venendo il dolo a smarrire qualsiasi sostrato reale di natura psicologica e scadendo esso ad elemento, nel migliore dei casi, di ordine prettamente rappresentativo se non addirittura presuntivo.
Ma se la descritta impossibilità oggettiva di evitare l’evento da parte di chi agisca antidoverosamente essendone consapevole – in violazione di una regola precauzionale – venga percepita e rappresentata come tale dall’agente, la situazione psicologica effettiva si identifica nell’accettazione di uno sviluppo causale imponderabile (sicuramente imponderabile, non solo possibilmente tale), la quale non può essere altrimenti definita che accettazione del rischio di realizzazione dell’evento .
In altri termini, l’accettazione del rischio non è niente altro che abbracciare l’imponderabile; consentire che l’esito possibile di una condotta (coscientemente antidoverosa) si concretizzi.
Siffatto atteggiamento della volontà, però, deve essere effettivo, non presuntivo o ricavato per via di parametri oggettivi. L’impossibilità di evitare l’evento mediante la condotta di emergenza, alla stregua di parametri nomologici oggettivi (massime di esperienza, leggi scientifiche, statistiche o altro), non può essere di per sé sufficiente a fondare il dolo. Occorre, altresì, che l’agente si sia rappresentato una simile impossibilità e, nonostante ciò, abbia violato la regola precauzionale. Solo in questi termini si può sostenere che la consapevolezza dell’imponderabile, come conseguenza di uno sviluppo causale non più controllabile di una condotta imprudente, negligente, imperita o inosservante di una specifica regola precauzionale, può definirsi dolo eventuale.
Di altro avviso è stata la pronuncia di legittimità, la quale, nella stessa vicenda processuale ora riferita, ha fatto un discorso forse non diverso in linea di principio, ma partendo da alcuni presupposti che a mio parere non sono del tutto condivisibili.
La Cassazione, in sostanza, ha fatto leva sulla mancanza di un nisus cosciente, cioè di un atteggiamento doloso della volontà, ricollegandolo al momento in cui l’agente si è reso conto dell’imminenza dell’evento dannoso.
Nel momento in cui c’è l’attraversamento col rosso di un incrocio, o comunque un’altra manovra stradale pericolosa, l’agente si rende conto a un certo punto che sta sopravvenendo un altro veicolo, che sta in prossimità di un urto, di un impatto con un altro utente della strada. In questo momento, proprio perché non gli è possibile effettuare alcuna contromanovra di emergenza, non si può, secondo la Cassazione, neanche affermare che agisca dolosamente. Non ci sarebbe, cioè, volontà di realizzazione dell’evento, poiché la situazione è tale per cui, a quel punto, non è più governabile il decorso casuale. Difetterebbe, quindi, quell’atteggiamento caratteristico della volontà dolosa che è dato dall’adesione, dall’accettazione del rischio, dato che, in quel momento, non c’era alcuna possibilità di accettare o non accettare il rischio e, quindi, se sulla base delle circostanze emerse in sede processuale si può desumere che non c’era comunque la volontà di cagionare l’evento, si dovrebbe concludere per l’affermazione della colpa con previsione .
Ritengo che quest’impostazione, la quale sottolinea che “nel momento in cui l’agente si rende conto di quello che sta per succedere non ha più alcuna possibilità di manovra”, sia frutto di un errore perché, in realtà, il dolo deve essere agganciato all’ultimo frammento della condotta causale rispetto all’evento e nel momento in cui l’agente non è più in grado di governare il corso degli eventi siamo già al di fuori dell’ultimo segmento della condotta causale . L’atteggiamento della volontà, in particolare della volontà dolosa, deve essere ricollegato all’ultimo momento causale della condotta e l’ultimo momento causale della condotta, in un caso del genere, è quello in cui l’agente continua a tenere il piede sull’acceleratore. E’ questo l’ultimo frammento causale della condotta rispetto all’evento, non l'istante successivo, in cui l’agente, resosi conto dell’ineluttabilità dell’urto, solleva il piede dall’acceleratore per tentare di rallentare o interrompere la marcia. Perché a tal punto non ha più alcuna efficienza causale la sua condotta. L’efficienza causale rispetto all’evento verificatosi, è data dalla condotta che determina l’accelerazione del veicolo, la prosecuzione della marcia dove essa non sarebbe consentita. E, quindi, è a quel segmento temporale e alla relativa condotta, che deve essere ricollegata la volontà.
Se ciò è vero, è proprio l’impossibilità di prevedere e la mancata previsione effettiva in quel momento – ossia fintantoché la condotta dell’agente sia causalmente efficiente, e non successivamente – di una manovra d’emergenza che contrasti la possibile realizzazione dell’evento dannoso, a far sì che la condotta possa effettivamente essere qualificata come dolosa, seppure appunto sub specie di dolo eventuale. In realtà, la Cassazione ha anche un po’ “strizzato l’occhio” ad alcune impostazioni dottrinali secondo le quali perché vi sia dolo occorre un’adesione emozionale rispetto all’evento . Queste impostazioni, a mio parere, però, non sono condivisibili, perché rischiano innanzitutto di aggiungere qualcosa di superfluo e di inafferrabile che con l'elemento soggettivo del reato ha poco da fare.
L’adesione emozionale, in secondo luogo, rimane estranea alla lettera del Codice, poiché ivi viene definito il delitto doloso, o secondo l’intenzione, quando l’evento da cui dipende l’esistenza del delitto è dall’agente preveduto e voluto come conseguenza della sua azione o omissione. Quindi mi sembra che da questa definizione fuoriesca qualsiasi profilo di adesione emozionale rispetto all’evento.
Vedo pertanto più corretta l’impostazione del giudice di merito che invece sottolinea una misura oggettiva anche nel dolo, la quale consiste proprio nell’ascrizione dell’evento a tale titolo ogniqualvolta l’agente si sia posto (consapevolmente) in contrasto con norme giuridiche precauzionali e abbia (consapevolmente) affidato all’imponderabile la realizzazione dell’evento dannoso che quelle norme miravano a prevenire, con ciò accettandone il rischio.
Del resto, l’imponderabile, quale conseguenza di una condotta di cui sia oggettivamente impossibile governarne gli esiti, assunto dall’agente come rischio cosciente nella consapevolezza di tale impossibilità, sembra collocarsi al di fuori dell’area del rischio disapprovato dall’ordinamento, per impingere, più propriamente, in quella del versari in re illicita. Il rischio disapprovato – come già si è avuto modo di argomentare – presuppone pur sempre un bilanciamento di interessi fra un utile sociale sottostante alla condotta pericolosa e la possibilità di lesione del bene esposto a rischio. Questo vuol dire che anche il rischio non consentito deve riferirsi ad una condotta (o attività) astrattamente valutabile in chiave di utilità sociale e, per questa ragione, valutabile comparativamente rispetto al rischio di verificazione dell’evento lesivo. Con riferimento, invece, ad una condotta in cui l’agente si pone volontariamente nella condizione di non poterne governare gli esiti perfettamente previsti, in conseguenza della violazione di una o più regole precauzionali, non si vede proprio quali potrebbero essere i termini di un simile bilanciamento.
Vi è, comunque, un però in questo ragionamento.
Ed è che in realtà il problema del dolo eventuale in re licita, nell’ambito di attività consentite, quale è la circolazione stradale, è un problema molto serio, come gli addetti ai lavori ben sanno.
E’ difficile immaginare il dolo nell’ambito di un’attività consentita, ancorché pericolosa, cioè nel superamento della soglia di rischio consentito, ed è estremamente difficile immaginarlo perché in realtà quando si pone in essere un’attività pericolosa violando le regole precauzionali che la presidiano, si potrebbe essere tentati di dire che per definizione non c’è dolo, non c’è volontà dell’evento .
L’esempio di scuola del chirurgo che sta operando il suo acerrimo nemico e che viola le regole dell’arte medica per provocarne la morte è un esempio abbastanza ambiguo, perché, in realtà, se il medico cagiona la morte della vittima per imprudenza, negligenza o imperizia, ancorché detestasse e volesse emozionalmente l’evento a carico del suo sfortunato paziente, non potrebbe comunque rispondere a titolo di omicidio doloso. Se, al contrario, violasse la regola dell'ars medica proprio per cagionarne la morte, lasciando ad esempio il tampone nell’addome per provocargli una terribile infezione, saremmo ovviamente nell’ambito dell’omicidio doloso. Ma in quest’ultimo caso, a mio avviso, non perché ci sia violazione di una regola precauzionale, ma in quanto sussiste una condotta causalmente efficiente rispetto all’evento, che è stato preveduto e voluto come conseguenza della sua azione. Quindi non vi sarebbe qui propriamente violazione di regole precauzionali.
E ciò si spiega perché l’omicidio doloso è essenzialmente un reato a forma libera e l’omicidio colposo, come anche le lesioni colpose, lo sono molto meno o non lo sono affatto, posto che colpa e violazione della regola precauzionale fungono da criteri di tipizzazione della condotta. Ed effettivamente per tale ragione il dolo eventuale rispetto ad attività consentite, in cui la conseguenza è l’effetto della violazione di regole precauzionali, non è facilmente concepibile.
E’ anche questa una sfida, un terreno di dibattito, di disputa giurisprudenziale e scientifica che necessita di un percorso abbastanza lungo. Credo che in taluni casi si possa parlare di dolo eventuale, ma naturalmente facendo tutti i distinguo e le precisazioni che ho appena abbozzato.
4. Il disvalore oggettivo della condotta nel reato colposo di evento: quoziente di protezione della regola precauzionale e quoziente di rischio modale come indicatori del grado della colpa
Possiamo a questo punto esaminare un altro versante che è strettamente collegato a quello ora trattato.
La giurisprudenza, di merito in particolare, cerca di individuare degli indici di qualificazione della colpa come colpa grave. In particolare, quando vi sia un difetto di percezione sociale. Si fa riferimento anche alla distinzione tra una colpa che consiste nella violazione di regole in cui chiunque potrebbe incappare e la colpa che, invece, testimonia un atteggiamento del reo incline alla violazione di regole precauzionali e quindi alla lesione di beni giuridici, all’offesa di diritti altrui .
Questo profilo mi sembra di notevole interesse; però, a diritto vigente, non può che rilevare come criterio di commisurazione della pena. E’ un criterio meramente commisurativo.
E’ vero, dopo le modifiche normative introdotte nel 2008 , effettivamente quello che prima poteva essere un aspetto tutto sommato marginale, diventa un aspetto molto importante. E si tratta di un’altra breccia, anche in termini di difesa sociale e di prevenzione generale, che la giurisprudenza, ad un’attenta interpretazione delle norme, sta in qualche modo aprendo. La commisurazione della pena diventa un fatto importante perché l’escursione edittale è significativa (da due a sette anni) e, quindi, grazie a questo intervento legislativo, il giudice può utilizzare un armamentario commisurativo pertinente alla gravità della colpa, ai sensi dell’art. 133 c.p., dotato di notevole incisività, anche sul piano sanzionatorio e persino riflettersi su momenti determinanti del processo, come la scelta dei riti alternativi.
Domando: si potrebbe pensare di utilizzare analoghi criteri non soltanto come indici commisurativi, ma piuttosto come criteri delimitativi di un terzo titolo di imputazione, differenziato dalla colpa e dal dolo? Si potrebbe, conseguentemente, individuare un titolo di responsabilità differenziato dal dolo e dalla colpa, approfondendo gli spunti giurisprudenziali ora richiamati? In special modo quando si parla, appunto, di scarsa percezione sociale, di violazione di regole precauzionali che non sia occasionale, di comportamento stradale manifestamente aggressivo?
Detto altrimenti: si potrebbero fondatamente, de iure condendo, sulla scorta di queste sollecitazioni, modellare criteri idonei a differenziare la responsabilità o a individuare una ipotesi di colpa grave, non rilevante solo in sede commisurativa, ma quale criterio d’imputazione del reato o, comunque, in veste di responsabilità autonoma e tipica collocata in un’area di frontiera fra dolo e colpa?
A diritto vigente non è nemmeno pensabile, naturalmente. Però potrebbe essere una sollecitazione utile in sede di auspicabile (quanto improbabile) riforma . L’esperienza degli ordinamenti anglosassoni , le ipotesi di fattispecie qualificata e i casi di speciale gravità nell’ordinamento tedesco , le fattispecie qualificate da determinate conseguenze, i casi di speciale gravità con regole esemplificative che non vincolano il giudice, ma che gli forniscono un criterio valorativo per individuare i casi più gravi in concreto, costituiscono un interessante orizzonte di ricerca in tale direzione .
Sarebbe anche ipotizzabile, in alternativa ad un titolo di responsabilità autonomo, l’introduzione di “casi di speciale gravità” rispetto all’omicidio colposo o alle lesioni colpose; ovvero a fattispecie qualificate di queste ipotesi di reato.
Ma i punti che a mio avviso destano maggior interesse in sede ricostruttiva e scientifica e il cui sviluppo, già a normativa vigente, può fornire importanti indicazioni in sede commisurativa, sono i seguenti.
In primo luogo, se si possa parlare di una differenziazione della responsabilità fondata sul disvalore della condotta, in relazione alla gravità della violazione della regola precauzionale, o alla sua tipologia. A mio avviso sì, tenendo innanzitutto presente che nel disvalore del reato colposo è possibile realmente isolare un disvalore della condotta legato al carattere sintomatico della violazione della regola precauzionale rispetto alla personalità del reo. Chi si comporta aggressivamente è sintomaticamente più pericoloso rispetto a chi non si comporta aggressivamente, ancorché l’evento realizzatosi sia lo stesso .
In secondo luogo – e da un orizzonte concettuale che a mio avviso risulta anche più interessante del precedente – si può ipotizzare una graduazione, una responsabilità più grave rispetto alla colpa semplice, fondata non tanto sul disvalore soggettivo della condotta e quindi sul carattere sintomatico della violazione della regola precauzionale, ma sull’entità del pericolo, cioè sul grado di pericolosità insito nella violazione della regola medesima .
In altri termini e a titolo di esempio, talune violazioni di regole del codice della strada – ma il ragionamento, come è evidente, può valere anche in altri campi – o comunque di prudenza stradale, sono più pericolose, hanno un grado di pericolosità maggiore rispetto alla possibile realizzazione dell’evento e, quindi, in questo senso la loro violazione evidenzia un profilo di maggior disvalore oggettivo della condotta .
Non bisogna, infatti, cadere nella semplificazione “disvalore della condotta=disvalore soggettivo, disvalore dell’evento=disvalore oggettivo”. Esiste anche – e la riflessione in materia sembra proprio convalidare l’affermazione – un disvalore oggettivo della condotta, che merita di essere approfondito in riferimento al reato colposo di evento .
Talune violazioni o modalità di violazione delle regole precauzionali, infatti, denotano sicuramente un disvalore oggettivo della condotta superiore rispetto ad altre, in quanto possiedono un grado di pericolosità – quindi su di un versante oggettivo dell’illecito – più intenso di altre, laddove per grado di pericolosità intendo una maggiore probabilità di realizzazione dell’evento temuto.
Sulla base di un auspicabile lavoro empirico orientato alla prassi – ecco, perciò, ancora una volta, emergere l’importanza delle statistiche, dei dati empirici – potrebbero essere senz’altro elaborate modalità di violazione delle regole precauzionali che denotano un quoziente di pericolosità particolarmente significativo per il bene giuridico tutelato. La violazione della regola di diligenza secondo tali modalità, comporta un disvalore oggettivo dell’illecito colposo più elevato, ancorché dipendente dalla condotta, e nonostante che l’evento sia sempre il medesimo.
Dunque, il nesso regola precauzionale-evento può venire riconsiderato non soltanto in chiave di delimitazione dell’ambito di protezione della fattispecie colposa .
Il nesso regola precauzionale-evento, sappiamo bene che è massimamente importante perché ci dice in primo luogo quali eventi ricadono nell’ambito di protezione della regola precauzionale violata e quindi anche quali eventi siano ascrivibili a titolo di colpa all’agente e quali non lo siano; ma in questa chiave può avere solo una funzione delimitativa, cioè tracciare il perimetro di tipicità dell’illecito colposo.
Come si è cercato di dimostrare sopra, la tipicità del reato colposo di evento si riconnette sempre alla concretizzazione di un rischio non consentito e la regola di diligenza non ha solamente la funzione di individuare quali rischi non siano tollerati dall’ordinamento, ma anche quella di incorporare un quoziente di protezione dei beni tutelati. Questo, però, non è dato solamente dalla regola precauzionale in sé considerata, ma dalle modalità della sua violazione: per tale ragione l’illecito colposo è sempre un illecito di modalità di lesione. Ove – e questo è il punto – per illecito di modalità di lesione non si deve intendere soltanto che l’offesa deve avvenire per effetto della violazione di una regola avente funzione di protezione del bene, ma anche che la modalità della violazione esprime sempre un diverso grado di rischio di realizzazione dell’evento. In altri termini, la modalità di lesione indica il quoziente di rischio cui il bene risulta essere esposto per effetto non solo della violazione di una data regola precauzionale (quoziente di protezione della regola precauzionale), ma anche per il grado di prossimità di tale rischio rispetto all’evento (quoziente di rischio modale): il divieto di sorpassare con la doppia striscia è sempre lo stesso, ma farlo in prossimità di una curva senza visibilità aumenta il rischio. Se l’evento dannoso si verifica, il disvalore penale dell’illecito è rappresentato dal disvalore dell’evento (che è costante) e dal disvalore della condotta, il quale incorpora non solo la violazione della regola precauzionale con il suo quoziente di protezione, ma pure il rapporto di rischio fra la stessa violazione e l’evento che si doveva evitare, ossia il rischio modale della condotta inosservante.
Il disvalore (oggettivo) del reato colposo di evento è dunque la sintesi del disvalore di evento e del disvalore della condotta, il quale si presenta come un quid composito e si connota per la sua intrinseca variabilità, in misura corrispondente al grado di rischio, che è dato, a sua volta, dalla modalità della violazione della regola precauzionale.
In riferimento a regole munite di un elevato quoziente di protezione del bene tutelato, la disapprovazione del rischio derivante dalla loro violazione risulta essere in grado particolarmente elevato. Il disvalore di azione, quindi, dipende in primo luogo dall’aver posto in essere un rischio fortemente disapprovato dall’ordinamento, in ragione della stretta dipendenza funzionale fra regola e integrità del bene.
In questo senso si coglie l’errore prospettico delle teorie finalistiche, secondo le quali l’Erfolgsunwert del reato colposo non possiederebbe alcuna funzione costitutiva dell’illecito, o comunque sarebbe situato “alla periferia del nucleo contenutistico dell’illecito colposo” , poiché il suo disvalore tipico risiederebbe tutto nell’azione realizzata, a prescindere dal verificarsi dell’evento stesso e, quindi, esso consisterebbe unicamente nella violazione della regola di diligenza. In realtà, la violazione della regola di diligenza non ha alcun contenuto di disvalore senza la sua proiezione funzionale verso l’evento. La realizzazione dell’evento è il perfezionamento dell’idea stessa di reato colposo e il disvalore dell’illecito colposo non può neanche essere concepito al di fuori dell’evento quale specifica componente di rischio della condotta antidoverosa. Il disvalore di evento nel reato colposo ha perciò una duplice relazione con il suo disvalore di azione, quantitativa e funzionale: la prima, perché il verificarsi della conseguenza attinge il grado più elevato di intensità secondo un ordine crescente che dal comportamento antidoveroso si svolge fino al compimento dell’evento; la seconda, in quanto l’evento nel reato colposo non è un dato soltanto empirico ma è funzione di un rapporto di rischio già leggibile e anticipato nella regola precauzionale e nelle modalità della sua lesione. Anche l’evento, pertanto, nell’illecito colposo ha una sua dimensione normativa; esso, cioè, rappresenta un quid che ha intelligibilità matematica e che, conseguentemente, ha un disvalore normativo rapportato al suo grado di predittività.
Tale rapporto può essere letto in varia guisa. Qui se ne propone una lettura in chiave empirico-frequentistica, sulla falsariga di una regola tecnica. Il quoziente di protezione è cioè dato dalla probabilità con cui all’inosservanza della regola segua l’evento lesivo. Più risulti elevata questa probabilità, maggiore sarà il quoziente di protezione della regola.
A fianco a questa prima componente del disvalore di azione, vi è quella determinata, come si è accennato, dal rischio modale, dipendente dalla modalità di violazione della regola che, per sua natura, esprime una funzione variabile, ossia il rapporto di rischio, inteso come probabilità di realizzazione dell’evento.
Credo che oltre a questa funzione – che sembra essenziale anche dal punto di vista politico criminale – il nesso regola precauzionale-evento possa essere ripensato (rectius: integrato) in ragione del disvalore che esso esprime. E tale disvalore, in entrambe le componenti ora segnalate (quoziente di protezione e rischio modale), è pur sempre un disvalore oggettivo di azione, per il suo intrinseco collegamento con il risultato lesivo della condotta.
Il profilo sanzionatorio, d'altronde, dovrebbe tenere conto di tutti gli aspetti sistemici. Quindi, a mio avviso, l'apparato sanzionatorio dovrebbe modellarsi su figure differenziali di reato colposo da individuare in base a casi di speciale gravità o a fattispecie qualificate proprio dalle modalità di realizzazione del reato colposo .
5. Conclusioni
In linea molto sintetica e con grande approssimazione, mi sembra che nel reato colposo di evento vadano prendendo forma diverse “famiglie”, ciascuna con proprie caratteristiche, anche molto dissimili fra loro.
Si tratta di un processo evolutivo (o involutivo, a seconda delle opinioni), ma che, a mio avviso, ha la sua radice nel carattere stesso dell’illecito penale colposo, che, come si è rilevato, è per sua definizione una forma di tutela variabile apprestata dall’ordinamento ai beni giuridici. E in tale guisa il tentativo di obiettivarne la natura nella violazione della diligenza “oggettiva”, appare fallito. Non esiste una misura oggettiva di diligenza; esistono piuttosto dei modelli differenziati di tutela in ragione del grado di protezione che l’ordinamento intende accordare ad un determinato bene giuridico in funzione delle diverse tipologie di rischio e del consenso ad esse accordato.
Al cospetto di tale constatazione si comprende più agevolmente la frammentazione del reato colposo, di cui qui di seguito, sulla base di quanto è stato argomentato in precedenza, si tenta di fornire una schematica veduta d’insieme.
In un primo contesto, che è quello che abbiamo ricondotto all’evoluzione del sapere tecnico e scientifico, la responsabilità colposa appare sempre più distante da un solido presidio connotativo dell’evento, per poggiare essenzialmente sul disvalore soggettivo della condotta, ancorato alla sintomaticità della violazione della regola precauzionale e conferendo a quest’ultima un ambito di protezione potenzialmente illimitato.
In un secondo contesto, che è quello della culpa in re illicita, il fondamento della responsabilità sembra collegarsi ad un modello precauzionale pre-giuridico, ossia privo di qualsiasi riferimento ad una regola d’obbligo, con destinatario prevalentemente a-specifico e avente come criterio più che un “agente modello razionale”, la razionalità o ragionevolezza di un agente qualsiasi o, forse più correttamente, dell’uomo medio.
In un terzo contesto, che ho ricollegato alla culpa in vigilando, vediamo invece comparire il profilo organizzativo delle realtà complesse in cui l’ordinamento individua i centri di imputazione della responsabilità penale. Qui viene in evidenza la pluralità dei sistemi di gestione dei rischi in cui si inserisce la regola organizzativa, che acquista una prevalente fisionomia di regola tecnica piuttosto che deontica e dove il “controllo di legalità” è fondato prevalentemente su di una verifica di efficacia, piuttosto che di ottemperanza. In tale ambito la prevedibilità quale criterio guida di accertamento della colpa, potrebbe essere presto sostituita con criteri basati sul rigore “tecnocratico” dei controlli e della gestione dei rischi, quindi sulla validità del metodo e sulla conformità alle procedure.
In un quarto contesto, si va (timidamente) profilando una figura di dolus (eventualis) in re licita, che si colloca in una posizione al limitare fra il dolo e la colpa e che ha origine pratica nella frequente richiesta di un “trattamento” più adeguato, in termini di severità (soprattutto in materia di sinistri da circolazione stradale), per molti comportamenti che solo apparentemente (almeno secondo alcuni) potrebbero essere qualificati come colposi. Si tratta senz’altro anche di una reazione ad una legislazione – quella italiana – talmente vetusta e inadeguata, che non dispone di efficaci e razionali strumenti di graduazione/differenziazione della responsabilità e delle sanzioni.
Infine, si deve a mio avviso mettere in luce la necessità di un approfondimento dei profili di disvalore del reato colposo di evento – se non altro de lege lata – per consentire al giudice una più consapevole graduazione della colpa. Anche a tale riguardo abbiamo la conferma che il reato colposo presenta una intrinseca frammentarietà, che si rivela pure sotto il profilo quantitativo e che consente di evidenziarne un disvalore oggettivo variabile anche con riferimento alla medesima offesa, in ragione della tipologia di rischio e di regola precauzionale violata. In questa prospettiva il disvalore del reato colposo di evento è anche disvalore oggettivo della condotta, legato al quoziente di protezione della regola precauzionale violata e al rischio modale di azione.